Pubblicato il 18/01/2019
CULTURA

Cent'anni e non li dimostra: l'Appello ai Liberi e Forti di don Sturzo



Il 18 gennaio 1919 il cattolicesimo democratico diventava maggiorenne e si aveva una rivoluzione copernicana: l'accettazione, da parte dei cattolici italiani, del metodo democratico come forma di partecipazione politica. Un Appello che delle idee di libertà e giustizia fa la sua bandiera e che ha ancora molto da dire cent'anni dopo.



di Giacomo Belvedere

«A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà». È l’incipit del celeberrimo “Appello ai Liberi e Forti”, con cui don Luigi Sturzo, il 18 gennaio 1919, fondava il Partito popolare e inaugurava in Italia la stagione del cattolicesimo democratico. Un documento che conserva ancora oggi la sua straordinaria attualità. Con quell’appello si scioglievano i cattolici dal vincolo del “non expedit”, il divieto di far politica, imposto ai cattolici all’indomani della presa di Porta Pia e della fine del potere temporale del papa. Un vincolo che, lungi dal soffocare l’attivismo del movimento cattolico italiano, lo aveva incanalato nell’associazionismo dell’Azione cattolica e in molteplici opere sociali e culturali: le società di mutuo soccorso, i sindacati “bianchi”, le casse rurali, le cooperative, e via dicendo, costituirono un apprendistato politico di prim’ordine, dove si forgiò la futura classe dirigente del Ppi. Una parziale deroga al “non expedit” si era avuta in con lo sdoganamento della partecipazione dei cattolici alle elezioni delle amministrazioni locali e quindi nel 1913 col cosiddetto “Patto Gentiloni”, con cui si invitavano gli elettori cattolici a votare quei candidati non ostili alla Chiesa. Ma era pur sempre un patto di palazzo, badato sulla logica del do ut des.


Il 19 gennaio 1919 il cattolicesimo democratico diventava maggiorenne. Una novità che va al li là del fatto in sé della fondazione del nuovo partito e del pur lusinghiero risultato in termini di voti che ottenne nella successiva tornata elettorale. Si usciva definitivamente dalla logica nostalgica dell’alleanza tra trono e altare e da quella – complementare dell’intransigentismo col nuovo Stato liberale. I cattolici accettavano il gioco democratico ed entravano nell’agone politico, misurando le loro forze e chiedendo il consenso sulla base di proposte, aperte a chi le volesse condividere, grazie a uno strumento non confessionale: il Partito popolare. Sturzo fu netto su questo punto: la nuova forza politica, pur ispirandosi ai valori cristiani, non avrebbe dovuto fregiarsi dell’appellativo di “cristiana” o di”cattolica”, per non confondere l’universalità della Chiesa con una associazione di parte. Tanto è vero che, assumendo la carica di primo segretario del nuovo partito, rassegnò le dimissioni da segretario nazionale dell’Azione cattolica.


L’accettazione, da parte dei cattolici, della democrazia come metodo politico non era cosa di poco conto, ma fu un’autentica rivoluzione copernicana.  La condanna, con cui il Sillabo nel 1864 aveva stroncato la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di culto, la laicità dello Stato e la democrazia come idee perniciose, frutto dell’indifferentismo e del relativismo, non aveva cessato di pesare come un macigno sulla coscienza dei cattolici democratici. E c’era chi, nelle stanze vaticane, non vedeva di buon occhio l’attivismo politico del prete di Caltagirone, nonostante avesse avuto l’appoggio incondizionato di papa Benedetto XV. Le vecchie logiche paternalistiche, negli ambienti ecclesiastici, stentavano a morire e si faceva fatica ad accettare la laicità dell’impegno politico dal basso, così come voluto e pensato da Sturzo. Tant’è che, quando Mussolini chiese la testa di Sturzo, al momento di siglare i Patti lateranensi, più di un porporato tirò un respiro di sollievo: si era tornati alla vecchia logica degli accordi dall’alto e fatta fuori la partecipazione democratica, guardata sempre con sospetto dall’ala conservatrice della Chiesa. E fu un peccato, perché furono “congelate” quelle energie spirituali che l’Appello ai Liberi e Forti aveva sprigionato.  


“Domandiamo che la Società delle Nazioni – si legge nell’Appello - riconosca le giuste aspirazioni nazionali, affretti l’avvento del disarmo universale, abolisca il segreto dei trattati, attui la libertà dei mari, propugni nei rapporti internazionali la legislazione sociale, la uguaglianza del lavoro, le libertà religiose contro ogni oppressione di setta, abbia la forza della sanzione e i mezzi per la tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffatrici dei forti”. E ancora: “Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell’Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali”. Quindi le proposte sociali: “Le necessarie e urgenti riforme nel campo della previdenza e della assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella formazione e tutela della piccola proprietà devono tendere alla elevazione delle classi lavoratrici, mentre l’incremento delle forze economiche del Paese, l’aumento della produzione, la salda ed equa sistemazione dei regimi doganali, la riforma tributaria, lo sviluppo della marina mercantile, la soluzione del problema del Mezzogiorno, la colonizzazione interna del latifondo, la riorganizzazione scolastica e la lotta contro l’analfabetismo varranno a far superare la crisi del dopo-guerra e a tesoreggiare i frutti legittimi e auspicati della vittoria”.


Su tutto aleggia un senso quasi religioso della Libertà, perché “sarebbero queste vane riforme senza il contenuto se non reclamassimo, come anima della nuova Società, il vero senso di libertà, rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie”. “A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti – conclude l’Appello -, a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l’adesione al nostro Programma”. Oggi l’Appello ai Liberi e Forti compie cent’anni. Ma non li dimostra affatto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA


Commenta
Il tuo commento verrà pubblicato previa approvazione. Soltanto il nickname sarà visibile a tutti gli utenti.