Pubblicato il 24/04/2019
ATTUALITÀ

Il 25 aprile: le donne e gli uomini liberi e forti dell'antifascismo calatino



Negli anni oscuri del regime, a Caltagirone si stagliano per contrasto figure limpide e fiere delle loro idee. Donne e e uomini liberi e forti, che sono un patrimonio per tutti, senza distinzione. È a cui è doveroso tributare il ricordo nella ricorrenza del 25 aprile: Luigi Marino, Giambattista Fanales,  i fratelli Bauccio, don Michele Tiralosi, Angela Cavalli, Concetta la Ferla, che tennero alta la fiaccola della libertà nella città  di don Luigi Sturzo e Arturo Vella.

di Giacomo Belvedere

Ha ancora senso celebrare il 25 aprile? Non è un rito desueto da porre in soffitta, come vorrebbero alcuni? O ancora: non è una festa da abolire perché divisiva? Certo, c’è una retorica dell’antifascismo che non fa bene alla memoria di quegli anni. Certo, il 25 aprile segna la fine di quella che fu anche una guerra civile, e come tutte le guerre fu scritta col sangue. Ci furono morti da una parte e dall’altra. Nell’ottica di una pacificazione nazionale è giusto ricordarli tutti. Ma non possiamo far finta di non sapere che alcuni morti erano dalla parte sbagliata e non combattevano per la libertà. E che chi si immolò per la liberazione dell'Italia, si immolò anche per loro. La pacificazione autentica non si ha nascondendo la verità su un regime ventennale, che soppresse tutte le libertà politiche e civili, incarcerò o uccise i dissidenti e promulgò le leggi razziali; infine portò l’Italia a combattere una  guerra disastrosa.


Per chi in malafede ha la memoria corta, occorre ricordare che il regime fascista perseguitò tutte le intelligenze più vive e sane della nazione. A tutti i livelli: accanto ai grandi nomi dell’antifascismo nazionale, c’è una storia locale dell’antifascismo, poco conosciuta, ma non per questo meno istruttiva. Anche a Caltagirone e nel Calatino diverse sono le testimonianze del clima soffocante di quegli anni. Caltagirone è la città invisa al Duce, perché aveva dato i natali a Luigi Sturzo e Arturo Vella, leader nazionali del Partito Popolare e del Partito Socialista. E che, forse anche per questo, fu punita e mai elevata a provincia.  


Negli anni oscuri del regime, a Caltagirone si stagliano per contrasto figure limpide e fiere delle loro idee. Donne e e uomini liberi e forti, che sono un patrimonio per tutti, senza distinzione. E a cui è doveroso tributare il ricordo nella ricorrenza del 25 aprile. Come il professore di Latino e Greco al Liceo Secusio di Caltagirone Luigi Marino, cattolico tutto d’un pezzo, presidente della Giac e battagliero oppositore del regime, che non accettò mai di iscriversi al PNF o di indossare la camicia nera durante il sabato fascista. Segnalato come elemento pericoloso al federale di Catania, dove pendeva un dossier a suo carico, per il solo fatto di avere idee non addomesticate.


O il medico comunista Giambattista Fanales, laureato in Medicina e chirurgia, presso l’Università degli Studi di Catania, che subì la condanna a 6 anni di carcere, oltre alla proibizione di esercitare la professione di medico, ma rifiutò sempre di chiedere la grazia, come gli suggerivano amici e familiari, perché avrebbe significato un’ammissione di colpa e una legittimazione del regime. Fu impedito nella sua professione, non certo per incompetenza o immoralità, come dovrebbe essere, ché anzi era un medico scrupoloso che sapeva il suo mestiere. Quanto alla dirittura morale, Fanales era un autentico santo laico, definito il medico dei poveri, perché curava gratuitamente i non abbienti.


Anche frequentare le botteghe dei calzolai, se questi erano noti comunisti come i fratelli Bauccio, era per l’occhiuta censura del regime una macchia. Perché  parlare di politica era un reato e un comunista un appestato. Una denuncia anonima – i regimi favoriscono la vigliaccheria –, sulle frequentazioni pericolose e sovversive che il prof. Marino aveva con i fratelli Bauccio, giunse il 25 luglio del 1935 al Ministro dell’Educazione Nazionale: il professore veniva accusato di diffondere il “verbo del disfattismo” e, forse anche in seguito a tale denuncia, fu costretto a non portare più il distintivo dell’Ac a scuola.


Ti poteva persino capitare di perdere l’insegnamento e rischiare il confino per una spiata, solo perché facevi il prete, commentando come era tuo dovere quel libro sovversivo che è la Bibbia. Successe a don Michele Tiralosi, assistente ecclesiastico dell’AC calatina. Una sua predica, tenuta nella Chiesa del Purgatorio di Caltagirone, in cui si commentava il noto passo di Col 3, 11 «Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti», venne interpretata come una critica alle leggi razziali del 1938. Il regime infatti inviava suoi emissari per spiare gli elementi ritenuti sovversivi e qualche anima pia lo denunciò.

Preti con la schiena dritta come don Giuseppe Nicotra, assistente della Giac e battagliero direttore del quindicinale diocesano «Vita da lui fondato nel 1936. Nel 1941 gli fu sequestrato e chiuso il giornale, e ritirata la tessera di giornalista, solo perché aveva osato scrivere finalmente il Duce si è ricordato di Caltagirone. Quel finalmente gli fu fatale. Anni dopo, era solito raccontare con fierezza come si era opposto a  un gerarchettoche gli aveva intimato di togliere il distintivo dell'AC.

La condanna al confino fu comminata alla giovanissima attivista cattolica Angela Cavalli di Scordia. I gerarchi locali non le perdonarono che non fosse inquadrata nelle associazioni di regime. La sanzione non le venne comminata, perché minorenne e perché la Federazione provinciale del Fascio comprese che sarebbe stata controproducente.


Storie di ragazze dal cuore impavido, con la libertà nel sangue. Come Concetta la Ferla, di umile estrazione sociale e modestissimo livello di istruzione, ma con una passione smodata per la lotta politica. Negli anni ’60 fonderà la prima sezione femminile del Partito Comunista, ma allora, nel ventennio fascista, poco più che una ragazzina, sapeva svolgere il suo compito di sentinella vigile, avvisando con un fischiettio dell’arrivo dei carabinieri il padre e i compagni di partito, riuniti nelle stanze segrete del retrobottega.

Donne e uomini, provati duramente dalla guerra e dalle persecuzioni del regime, che pure conoscevano la pietà e l'umana compassione. Nel luglio del 1943,  prima dello sbarco alleato a Gela, vennero a bussare alla porta del prof. Marino, nella residenza estiva a Porto Salvo, due soldatini tedeschi, che erano di stanza lì vicino, sotto il grande maestoso albero di pino. Due ragazzi giovanissimi, uno di 19 e l'altro ancora minorenne, di 17 anni: chiesero un po' di acqua. Ma avevano bisogno soprattutto di compagnia e del calore di una casa. Mostrarono le loro foto gelosamente custodite: le loro case, belle e confortevoli, i parenti, le loro mamme, le loro fidanzate. I loro occhi luccicavano per le lacrime.

Il professore, fiero antifascista, che più volte era stato minacciato dal regime, vide negli occhi luccicanti di quei due soldatini imberbi, dagli sguardi impauriti, gettati allo sbaraglio da una guerra spietata e crudele, lontano dai loro affetti, gli occhi dei suoi figli, dei suoi alunni, e ne ebbe pietà.


Perdere la memoria di questa storia sarebbe una iattura esiziale: una sorta di Alzheimer in cui si rischia di obnubilare non solo il ricordo di quel che fu il 25 aprile, ma la coscienza stessa della nostra identità di siciliani, di italiani e di europei. Questo è il 25 aprile: non il ricordo archiviato di chi fummo ma la memoria viva di chi siamo oggi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA


Commenta
Il tuo commento verrà pubblicato previa approvazione. Soltanto il nickname sarà visibile a tutti gli utenti.