Pubblicato il 18/01/2020
CULTURA
ph. Fabio Navarra

Daniele Vicari presenta “Emanuele nella battaglia” alla Dovilio di Caltagirone



“Emanuele nella battaglia” è un romanzo sul potere, la solitudine e la forza delle donne. Ancora una volta la Dovilio ha fatto centro e non ha deluso il numeroso pubblico degli affezionati lettori, proponendo un incontro con l'autore intrigante e di qualità.

di Giacomo Belvedere

Cosa spinge un regista affermato e pluripremiato come Daniele Vicari (al suo attivo film come Diaz - Non pulire questo sangue, Sole Cuore Amore e Prima che la notte, per citarne solo alcuni) a cimentarsi nella scrittura di un romanzo? A questa, e ad altre domande, il regista-scrittore ha risposto ieri, durante la presentazione del libro Emanuele nella battaglia, edito da Einaudi, che si è tenuta presso la Libreria Dovilio di Caltagirone, nell'ambito della fortunata rassegna “Scrittori strettamente sorvegliati”. La Dovilio ancora una volta ha fatto centro e non ha deluso il numeroso pubblico degli affezionati lettori, proponendo un incontro con l'autore intrigante e di qualità.



Il romanzo tratta di un fatto di cronaca nera: l'omicidio di Emanuele Morganti, un ragazzo di vent’anni, massacrato dal branco fuori da una discoteca di Alatri, la notte tra il 24 e il 25 marzo 2017 e morto il 26 marzo al Policlinico di Roma, in seguito ai numerosi traumi riportati. Un episodio di ferocia spietata e gratuita, che ha fatto molto discutere e per il quale in primo grado sono state emesse tre condanne e una assoluzione, ma su cui i riflettori dei media si sono ormai spenti, condannandolo all'oblio.


SCIASCIA ED EMANUELE - Daniele Vicari spiega che la molla che ha suscitato in lui il bisogno di raccontare la storia di Emanuele, è scattata in Sicilia e precisamente a Palermo, dove si trovava il 26 marzo 2017 per il funerale del suocero Giuseppe Quatriglio, giornalista di lungo corso, 74 anni al Giornale di Sicilia.

Vicari scherza sui suoi legami con la Sicilia, traditi persino dal cognome e cementati dal matrimonio con Costanza Quatriglio, anche lei regista. Una sorta di affinità elettiva. “Forse non è nemmeno un caso che un paese dalle mie parti si chiami Girgenti”.




“Guardavo una foto scattata da mio suocero a Leonardo Sciascia – racconta Vicari – che stava appoggiato a un visore stereoscopico – una sorta di allegoria dello sguardo dello scrittore – e, per caso, sulla homepage di Repubblica mi ha attirato la foto di un ragazzo, anche lui appoggiato a una vecchia Land Rover, che conosco bene, dato che è l'auto di un amico d'infanzia. Non riconosco subito il ragazzo, ma leggo il titolo: "Ammazzato dal branco". Chiamo immediamente mia mamma. Il ragazzo è Emanuele Morganti, conosciuto dalla mia famiglia, dato che frequentava spesso il bar dei miei. Ho avuto un momento di shock”.



DENTRO I BUCHI NERI - Dalla corrispondenza e analogia tra le due foto è nata l'urgenza di sapere. “Mi sono subito accorto – continua Vicari – che c'era qualcosa di strano: i media stavano cominciando a fare un processo alla vittima, raccontando una guerra tra poveri, tra Alatri e la frazione di Tecchiano, il paese di Emanuele. Allora ho pensato: voglio capire perché ci sono troppe stonature. Mi sono trovato a dover fare i conti con i luoghi dove sono nato e con le distorsioni del mondo dell'informazione, di cui faccio parte. Scrivere questo romanzo mi ha portato a conoscere luoghi e facce che ho sempre evitato nella vita. Ci frequentiamo solitamente tra "ottimati", e il marcio e i buchi neri non li vediamo più. La scrittura, invece, ti aiuta a filtrare la realtà, e accende una luce su quei buchi neri. Ho cercato di scrivere un un romanzo sul rapporto tra dolore, media e relazioni sociali ”.


Vicari ha cercato di contattare il padre di Emanuele, che inizialmente non rispondeva ai suoi messaggi. Peppe, il padre di Emanuele, è quanto di più lontano dalla formazione di Vicari: “Un uomo di destra e cacciatore – io sono contro la caccia -, ma che piangeva inconsolabile e io sono caduto nella sua storia”.



“NON RACCONTO UN MORTO” - “Non mi andava di raccontare la storia di un ragazzo morto, ma le ragioni di questa morte. Sono partito dalla foto. Emanuele era andato con un amico nei boschi, dopo aver preso di nascosto la macchina del padre. E ho cominciato a raccontare di Emanuele che passeggia in mezzo alla natura, un ragazzo vivo, che si relaziona con il mondo infinito dei sensi. Da lì ho capito come scrivere il libro”. Vicari ha tentato, con pudore, di raccontare cosa muove la morte, evitando di scadere nella descrizione sacrilega.



Perchè la morte può diventare uno spettacolo osceno di cui compiacersi. C'è infatti il rischio di cadere nella trappola della morbosità o dell'idea preconcetta che il male faccia più notizia del bene, esaltando e facendo diventare eroi invincibili dei banali criminali. Ci sono episodi incredibili, come quelli accaduti alla mamma di Emanuele al cimitero, dove un tizio si è messo in posa per una foto sulla tomba di Emanuele e ne ha ricavato t-shirt da vendere come souvenir. C'è anche la vicenda di uno che si recava spesso dalla famiglia di Emanuele per le rituali visite da lutto, ma il suo scopo non era confortare, ma captare se le indagini potessero arrivare a lambire la sua attività di spacciatore.



Nel suo viaggio dentro la storia di Emanuele, Vicari ha fatto un'altra scoperta sconcertante: alcune persone coinvolte nel pestaggio, avevano partecipato a un film, una sorta di parodia, in salsa provinciale, di Romanzo criminale, in cui i personaggi, invece di prendersi Roma si prendono la Ciociaria.


LA FORZA DI MELISSA - È stata Melissa, la sorella di Emanuele, a fargli fare questa scoperta. “Melissa guardava il film e diceva: io questi film li ho sempre odiati”. Melissa, una rompiscatole di suo, con il vizio – o la virtù – di dire quello che ha in testa senza filtri e senza calcolare le conseguenze. “Sono un regista – confessa Vicari –, e quella frase mi ha messo in crisi: mi sono sentito anche io responsabile della morte di Emanuele”.




È un libro sulla forza delle donne, sul potere e sulla solitudine. Melissa si trova immersa nella realtà di quel paese da cui era partita 15 anni prima e che aveva rifiutato. Si trova imprigionata nell'omicidio del fratello e ingaggia una battaglia per avere giustizia, conducendo una sua inchiesta parallela. “Mi sono innamorato narrativamene di Melissa – ammette Vicari – perché ci insegna a conoscere i meandri di una società cosiddetta normale, che tuttavia nasconde, sotto il velo dell'ipocrisia, gli abissi del male. Ci regala la consapevolezza di ciò che siamo: che stiamo male e non godiamo il nostro benessere”.



“C'è un motivo - continua - del perché le donne devono farsi carico della gestione del dolore, ma anche delle battaglie di giustizia dei loro uomini? È una questione antropologica gigantesca. Quando non sono vittime direttamente di violenza, sono vittime indirettamente”. Vicari ha una sua spiegazione: “I maschi sono educati a gestire il potere. Attenti – avverte – a non commettere un errore: considerare il potere di un capo di Stato diverso qualitativamente dal potere dello stronzetto che ammazza una persona. La differenza è quantitativa, non qualitativa. Sta qui la forza delle donne: non hanno paura del potere, perché non lo condividono. Melissa, come Ilaria Cucchi, ingaggia una battaglia per la giustizia per fare venire fuori l'ovvio che non si vuole vedere. Ha dalla sua quella claritas che per Tommaso d'Aquino è un dono di Dio”.




LE AMNESIE AL PROCESSO - La sua è una battaglia strenua “contro un potere "colloso" che frena la società anche più della politica, della mafia... Ammazzano un ragazzo e persino le condoglianze diventano una menzogna. Il fenomeno criminale è pervasivo: difficile denunciare perché conosco la vittima, ma anche il carnefice, lo incontro al bar.” Il processo è una serie di “non ricordo”, e non c'è la mafia coinvolta. “C'è del vero - commenta amaro Vicari - in quella battuta caustica di Frutteto e Lucentini: “quella roba che i siciliani chiamano mafia, i torinesi la chiamano discrezione”.



Quella piazza, dove è avvenuto il pestaggio, si è trasferita nel processo, subendo una metamorfosi: nella prima fase emergono fatti che poi si inabissano e si volatilizzano in amnesie sospette. Sono 16 le persone accusate di reticenza e falsa testimonianza: “preferiscono essere condannate, piuttosto che il giorno dopo trovarsi faccia a faccia con i responsabili. La corte non è riuscita a provare per i 4 rimasti, delle 15 persone coinvolte, la volontarietà. Si è passati all'omicidio volontario a quello preterintenzionale e due sono già ai domiciliari. Il padre di uno del branco, inizialmente indagato perché ha istigato il pestaggio (“ammazzatelo!”, ripeteva) e ha trattenuto l'unico amico che ha cercato di difendere Emanuele, è stato discolpato. E Peppe, il padre di Emanuele, va al bar, o in piazza, e si ritrova con chi è accusato di essere l'assassino di suo figlio”.



Tuttavia Vicari ha tenuto il processo fuori dal libro: “mi interessava piuttosto il percorso dei familiari, fino al giorno in cui hanno incontrato i responsabili. Il racconto si ferma alla soglia del processo. Perché il tema del libro non è la vicenda giudiziaria , ma la nostra solitudine”.



UN FILM DAL ROMANZO? - Si farà un film dal romanzo? Vicari non si sottrae alla curiosità dei lettori, non chiude le porte, ma la sua risposta è interlocutoria: “La scrittura ha una marcia in più rispetto alla macchina da presa, permette riflessioni che aiutano ad andare al di là dei fatti narrati, apre tante porte e vie di fuga e mi dice come io mi vedo nel mondo. Il film non lo permette. Il significato di un film sta sulla capocchia di uno spillo, diceva Orson Welles. Potrei paragonare i libri all'universo e i film a un missile che si dirige solo in una zona di quell'universo. Ma c'è di più: quando ho fatto Diaz, io ero fuor dalla storia, in questo caso ci sono dentro”.


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